Z’ Giuwann' Marian’

12 Febbraio 2008
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La festa è finita. La piazza è pressoché deserta. Poche persone sedute ai tavoli davanti al bar sorseggiano l’ultima birra. L’orchestra sta smontando gli strumenti e li sta caricando sul grosso camion parcheggiato di fianco al palco.
La notte d’agosto è calda, un vento lieve e tiepido si è appena alzato. Sono le due del mattino.
Si sta bene a quest’ora, d’estate, quando di giorno la calura martella, implacabile.
Le Feste d’Agosto sono al culmine: si è ballato fino a un’ora prima. Tanta gente, come sempre in queste serate di festa, in cui noi che viviamo a Colledimezzo e coloro che invece vivono all’estero o in altre parti d’Italia ci si ritrova per stare un poco allegri e spensierati. Nonostante l’ora c’e’ ancora traffico, macchine che passano, alcune di ritorno da altre feste. Altre, piene di giovani, probabilmente passano per andare invece a iniziare la loro notte di divertimento….
Me ne sto solo, seduto sui gradini di pietra della chiesa di S. Rocco. Osservo l’andirivieni degli addetti allo smontaggio degli strumenti musicali. La loro giornata (o meglio, nottata) di lavoro non è ancora terminata. Domani avranno - come dice una vecchia canzone di Ron – un altro viaggio e una città per cantare.

D’improvviso mi sento stanco. Istintivamente mi appoggio col gomito sullo scalino. Dopo pochi secondi sento le palpebre pesanti. Penso di alzarmi per tornare a casa e andare a dormire. Peccato, penso, perchè stare qui a quest’ora offre una serenità che raramente il giorno - con tutti gli impegni e gli imprevisti che lo caratterizza – permette.
Sto per alzarmi, quando d’improvviso, nella quiete, una voce nota alle mie spalle mi dice, con tono di lieve rimprovero:
“Ma t’ l’ fi passà su sonn’ o no?!”
Mi giro, improvvisamente ridestato dalla voce e dalla figura che mi si para davanti con le mani sui fianchi. Sono impietrito. Guardo colui che a sua volta mi osserva, gli pieni di vita e di allegria, il sorriso tra il burbero e il bonario.
“Z’ Giuwà, ma che ci fi tu a ecc’??”, grido.

E’ proprio lui, Z’ Giuwann’ Marian’ col baffo nero e i cappelli lucidi tirati all’indietro, un vestito grigio chiaro e gli occhi più vivi che mai.
“Come che ci faccio? Questi sono momenti in cui cerco di non mancare mai, come tutti sanno!”
“Si, lo so”, dico scuotendo il capo, avvilito. “Stavo proprio pensando che ora che manchi tu le feste hanno perso qualcosa. La tua allegria, il tuo sorriso gioviale attorno a un tavolo con gli amici e un paio di bottiglie di birra.”
“Ma se ti ho appena detto che cerco di non mancare mai!” mi sgrida, chinandosi su di me
“Si, ma tu sei… sei…” cerco di dire quello che tutti sanno, purtroppo, ma lui mi legge nella mente.
“Ma che! Ma che! Nessuno muore se c’è il pensiero di chi è in vita.”
“Certo” dico. “Ma non è possibile che tu…”
“E daajjje! Ti ho detto che tutto è possibile! Basta la buona volontà!”
“Ho capito, mi arrendo…ma sei arrivato tardi questa volta, la festa è finita.”
“Ma che finita e finita! Si tu che duorm!!’”
E si scosta per lasciarmi vedere. La pazza è piena di gente, infatti.
C’e’ un’orchestra molto numerosa sul palco a cassa armonica color verde chiaro.
Leggo lo striscione: ‘Orchestra spettacolo Cesare De Cesaris’.
Cesare suona la fisarmonica e la gente balla. Guardo bene. Tante persone sedute davanti al bar, i larghi boccali di birra con la scritta rossa ‘Peroni’, alcuni giocano a carte nonostante l’orchestra. Mi rendo conto che tutte quelle persone vivono nei nostri ricordi. Li guardo uno per uno. Sono allegri. Bevono la birra e brindano. Ne offrono a quelli che stanno in piedi e quelli si uniscono e pure loro bevono e ridono. Nessuno è escluso…
“Bevono molto, a quanto vedo, z’ Giuwa…” osservo.
“Ora possono. Sai che non gli può far male ora. Niente fa più male, ora...”
“Da noi, giù, come sai, le cose più belle o sono peccato o fanno male!” , dico sconsolato.
“Ci sono passato anche io…” risponde lui sorridendo. “Ma anche la vita è bella. Io laggiù sono stato bene. Cercavo di essere allegro sempre, di stare in mezzo alla gente. Volevo stare bene con tutti…”
“Lo sappiamo, Z’ Giuwà. E’ per questo che ti ricordiamo un po’ tutti. Ma tu ci raccontavi anche storie divertenti. Tu sei andato via da Colledimezzo molto giovane…”
“Sì, sono andato in Argentina che avevo ventuno anni, ma allora a ventuno anni non si era così giovani come ora, nel senso che ventuno anni nel 1950 non erano i ventuno anni di ora… allora si era uomini fatti, a quella età.
“Ti sei imbarcato a Napoli, come tutti allora, immagino…”
“Sì, sulla nave Anna C, insieme ad altri paesani…era maggio e a Napoli faceva un caldo incredibile!”
A quelle ultime parole al posto della piazza gremita di gente si materializza l’immensa sagoma di una nave, appunto l’Anna C, e un gruppo di giovani, tre dei quali accosciati, gli altri cinque in piedi. Capisco che è una visione. Capisco anche chi è Z’ Giuw’nn’ tra gli altri giovani di Colledimezzo che in quel lontano mese di maggio del 1950 si stavano imbarcando per l’Argentina, dove avrebbero trovato l’autunno e il fresco, dopo un mese di viaggio…”
“Non sembravate proprio emigranti con la valigia chiusa con lo spago.” dico, dopo che la visione si è smaterializzata “Anzi, sembravate dei turisti, con quei bei vestiti e gli occhiali da sole, altrochè!”
“Ma Che! Che!... Non eravamo certo alla fame, qui a Colledimezzo, ma sentivamo la voglia dentro di stare meglio, di provare ad andare dove gli altri paesani erano andati…”
“L’Argentina del 1950 non era questa di ora.”, dico.
“No, ma si stava meglio che qui a Colledimezzo, ma era per il fatto che noi venivamo da un guerra disastrosa. Ma l’Argentina non era la terra per chi voleva diventare ricco. Noi eravamo giovani e Buenos Aires sembrava una città fatta per i giovani, per il divertimento. Arrivammo da Colledimezzo e restammo abbagliati dalle luci e dal traffico. Dalla vita, dal movimento e…”
“…Dal tango…”, dico.
A questa parola gli occhi di Z’ Giuw’nn’ si illuminano. Accenna a un passo di tango, sorride, si rivolge verso la piazza dove stanno ballando. Scuote la testa.
“Ma che ci vuoi fare! Che ci vuoi fare!” esclama Z’ Giuw’ nn’ guardando le coppie che ballano. Quello di Buenos Aires era tango non questo! E poi c’era tutta quella gente, le macchine, i tram giorno e notte la gente sempre fuori. Che città Buenos Aires! Pensavamo di essere sbarcati in paradiso!”
“E il lavoro?” accenno, guardandolo con un mezzo sorriso.
“Lavoravamo, come no. Facevamo i muratori, ma gli argentini al lavoro non ci pensavano e dopo un pò che stavamo lì neppure noi ci pensammo molto. Per loro il lavoro seviva per mantenersi una vita tranquilla e senza ansie. Quindi niente ritmi pazzeschi, corse, affanni, tempo che corre eccetera, come noi ora…Gli argentini dicevano che si vive una sola volta e la vita è un dono che va apprezzato.”
“Filosofi, eh, gli argentini…ma come era quella storia della casa senza porte e finestre…?” e mi viene da ridere perché è uno dei fatti di Z’ Giuw’nn più raccontati. Anche lui ride.
“Che vuoi fare, che vuoi fare…” dice ridendo e muovendosi ancora col passo di tango argentino
“Eravamo giovani e Buenos Aires era un paradiso. Ah, che tango si ballava lì, il vero tango arghentino…ma che ne sapete voi!”
“Sì, ma la casa…?”, insisto.
“Beh, quella sera dovevamo andare a ballare a una festa che si teneva un po’ lontano, alla periferia della città. Si diceva che ci sarebbe stata tanta gente. Allora Buenos Aires faceva 8 milioni di abitanti, che allora per noi non era neppure immaginabile una città con 8 milioni di persone! Beh, sai, dovevamo fare un piano di casa, il pianterreno, per un tale che si doveva sposare e voleva subito la casa. Dovevamo fare presto, dovevamo finirla entro una settimana, non era grande la casa, ma noi avevamo paura di non finirla con una settimana perché lì attorno c’erano feste tutte le sere, anzi le notti, e spesso si tornava di mattina, e spesso si cominciava a lavorare dopo pranzo! Dunque dovevamo lavorare sodo fino alla sera tardi. Lavorare veloci, anche…”
Me la rido, so già come fa a finire…
“Tanto veloci che quella volta vi siete dimenticati di qualcosa di importante!”
“Dovevamo finire quel pianterreno” racconta Z’ Giuwann’ sorridendo. “C’eravamo fatti un programma giornaliero di lavoro. Era difficile lavorare, però con gli argentini che ci guardavano e ci portavano in continuazione dolci, mate, e in casa tenevano sempre una radio che suonava tango e anche canzoni italiane…. Era un via vai di gente! Ma che! Che! Ma che era un cantiere, quello? Sembrava una stazione ferroviaria!”
“E allora?”, dico che già non so più trattenermi dal ridere.
“Allora ci mettemmo a lavorare sodo, senza guardare più nessuno, affilammo mattoni su mattoni, impastammo calce e calce, un pomeriggio senza fermarci per niente per non fare tardi alla festa, dovevamo finire in un giorno quel pianterreno, come era nel programma.”
“E finiste…?”
Z’ Giuwann’ ride, agita le braccia, muove le gambe, pieno di vita. Quindi scuote il capo, prima di raccontarmi la parte finale di quella storia che tante volte mi sono fatto raccontare da lui.
“A f’nì f’nemm’…ma p’ la furij z’ scurdemm’ a fa l’ port e l’ f’neshtr’!”

“Sient’ Z’ Giuwà, ma poi sei tornato da Buenos Aires.”
Sì, perché dovevo sposarmi. Allora non era come oggi. Essere fidanzati era una promessa d’amore che non si poteva ingannare. Ero fidanzato da qualche anno con mia moglie Amelia. Stetti a Buenos Aires tre anni, poi tornai e sposai Amelia. Mi ero comprato il vestito da sposo a Buenos Aires, un bel ricordo. Era davvero un bel vestito. Me l’aveva cucito un sarto francese che era mio amico e gli avevo messo a posto un tetto. Ricordo che l’ultima sera sulla nave mi ero messo quel vestito e andai su in prima classe, e tutto il personale mi salutava con un inchino “buonasera signore, benvenuto signore, prego signore…eh, sì, come si dice ‘l’abito fa il monaco’, e che vuoi fare, che vuoi fare!
Il personale era convito che fossi un riccone in viaggio d’affari… che divertimento! Con il lavoro riuscii a mettere insieme i soldi per il viaggio e anche per un vestito come si deve! Non era da tutti, lì in Argentina…”
“Poi andasti in Svizzera…”
“Sì ,dopo spesato. In Svizzera però era tutta un’altra cosa…”
“Niente filosofia, gli svizzeri, eh? ”, dico.
“Ma che! Che! Lì si lavorava e basta. Tutta un altro modo di pensare, un altro sistema di vita… però certo che la casa che ci siamo costruiti a Colledimezzo non potevamo farcela con i pesos argentini, questo è da riconoscerlo…!”

“Hai avuto una famiglia da mantenere, come tutti a Colledimezzo. Ora sembra che fare una famiglia sia sempre più difficile. Nessuno si sposa. Tu tornasti da Buenos Aires per sposarti. Specie a Colledimezzo quasi nessuno si sposa, ormai. E mancano i bambini…”
“Allora la famiglia era il primo ideale. Quando si stava fuori ci si divertiva ma si pensava sempre che si aveva una famiglia di cui si era responsabili. Oggi ho l’impressione che i giovani fuggono le responsabilità.”
“Già… ma tu hai avuto anche un ideale politico, lo sanno tutti.”
“Io li ho avuti i miei ideali. E mica li nascondevo! Anzi!”
Erano ideali di onestà e di rettitudine. Ci si credeva, allora. E molti giovani hanno sacrificato la loro esistenza per gli ideali. E a volte anche la vita. Bisogna rispettare tutti coloro che credono in un’idea. E non disprezzare. Meritevoli di disprezzo sono coloro che non hanno nessun ideale. Per ideale intendo un modo affinché la società migliori, che le ingiustizie, le prepotenze e la sete di potere mi non ci siano più. E’ difficile, ma bisogna provarci, crederci…Io ci credevo e ci ho creduto. E per questi ideali mi sono battuto con coraggio. Ora mancano gli ideali nei giovani. Non ne hanno. O forse, sì, se si possono chiamare ideali la ricchezza e il successo a ogni costo, anche a costo di calpestare il prossimo e diventare dei delinquenti.”
“Parole dure…”
“Già, ma a qui si soffre a vedere il mondo che va nel modo che va. Da qui si vede meglio…E la politica di oggi… ma che! Che! meglio non parlare sennò mi viene il voltastomaco!”

Silenzio. Anzi, no. Ora c’e’ una orchestra immensa sul palco. Perez Prado, addirittura. Suonano un mambo. In piazza ascoltano e battono le mani.
“Manchi anche alle gite degli anziani, z’ Giuwà. E i pranzi a casa tua, fino a poco tempo prima che tu sei andato via…”
“Beh, lì sono stati gli ultimi scampoli di divertimento sulla terra, per me. Cercavo di ballare, ma le gambe non erano più quelle di una volta. Ma era bello stare insieme, come sempre…”

Sul palco c’e’ ora Armando Savini. Una festa dei primi anni settanta. Allora Savini era un cantante che aveva avuto un bel successo. C’è molta gente, infatti. Anche di fuori. Sento qualcuno che dice che a Villa S. Maria c’e’ Rosanna Fratello e a Quadri addirittura Claudio Villa.
“Beh, noi qui ogni tanto riviviamo i bei momenti sulla terra. Stiamo in mezzo alla gente della nostra gioventù. Come vedi stanno tutti bene. Qui si sta come fratelli, ci si vuole bene. I brutti sentimenti ce li siamo lasciati sulla terra.”, dice Z’ Giuw’nn’.
”Eh, già…”
“Ma dai! dai! Ci vuole forza e volontà….Ti ripeto le ultime parole che ho detto prima di venire qui…”
Alzo il viso per ascoltare.
“Vulet’v ben tutt’quient’

Primo anniversario della morte di Giovanni Mariani.

Camillo Carrea