Trent’anni e li dimostra. 1979- 80

09 Novembre 2009
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Era una domenica piovosa, quella dell'undici novembre del 1979…. La pioggia era venuta giù fino alla mattina: una pioggerella fine e continua, tipica delle piogge autunnali. Il nostro campo sportivo era stato segnato il giorno prima, l’undici, dai due operai del comune, Gino di Villa S. Maria e il compianto Federico Marchionno. L’indomani vi sarebbe stata la prima assoluta di un campionato di calcio a Colledimezzo: Raffaele, Presidente della Società Sportiva e Guardia comunale, aveva detto loro di segnare il campo accuratamente, rispettando le misure, e soprattutto che le righe fossero il più possibile dritte. Sabato mattina, sotto la pioggia, avevamo assistito, io e gli altri compagni – che l’indomani avremmo giocato - agli ultimi lavori, la già citata segnatura del campo con spago e picchetti, e la non meno emozionante collocazione delle reti - di un insolito colore verde - alle porte. Una volta montate, le reti sembravano una continuazione dell’erba del campo, la quale non era certamente quella di ora. Era erba spontanea, selvatica, che però dava al campo una parvenza di campo di calcio da serie superiore. Federico e Gino avevano fissato le reti a terra con dei picchetti di legno – rami spezzati (l’ pizziuc’) - quelli che si usano per piantare i legumi. Federico aveva dato un’ultima pulita agli spogliatoi, specie quello dell’arbitro entro il quale avevano portato persino una ‘scrivania’, in realtà una vecchia cattedra anni ‘60 presa dal soffitto della scuola elementare. Era la prima volta che vedevamo il nostro campo segnato col gesso: il centrocampo, le due aree, le linee laterali e le reti alle porte. Strano e meraviglioso. Andammo tutti sulla ferrovia: da lì il campo si vedeva bene, dall’alto, appunto, come gli stadi. Guardavamo in silenzio (aveva smesso dei piovere, ma avrebbe ripreso poco dopo) affascinati dal nostro campo ‘truccato’ per la prima volta, come un’ adolescente alla prima uscita. Qualcuno di noi disse, incantato: “Altr’ ché S. Sir’”. “Verament’!” fece eco un altro. Nessuno di noi aveva mai visto S. Siro se non in televisione, naturalmente. Rimanemmo senza parlare - rapiti dall’ immagine del campo mai vista prima - per qualche minuto ancora, a fantasticare sull’indomani alle due e mezzo del pomeriggio quando saremmo entrati in campo con le magliette arrivate una settimana prima e che tutti, - dirigenti, giocatori, la gente - erano andati a vedere a casa di Raffaele. Il quale le aveva stese una per una – quasi fosse la Dote della sposa -- sui tavoli della casa: maglie a strisce bianco e rosse, tipo quelle dell’allora Lanerossi Vicenza. Nicola Del Peschio, il sarto, aveva provveduto a metterci i numeri… Una sera di fine ottobre Raffaele ci aveva consegnate – eravamo emozionati come alla Prima comunione – le borse bianche coi bordi rossi e la scritta ‘SS Colledimezzo’, e le tute, di un insolito e brillante color giallo vivo. Ci guardammo, quella sera, con le borse in mano, gli occhi che brillavano di entusiasmo. Ci sentivamo dei giocatori veri, con quelle borse. Come quelli che l’estate, al leggendario torneo di Villa S. Maria, passavano per andare negli spogliatoi: i giocatori del Villa, ammirati e temuti (sportivamente) oppure quelli ‘forestieri’ che giocavano nelle squadre che facevano i campionati e ai quali ci si rivolgeva nei tornei estivi per rinforzare la squadra: questi sfilavano con la borsa del Guardiagrele, del Castelfrentano, del Fossacesia o dell’Atessa, lo sguardo un po’ altezzoso, quasi fossero dei semidei. Sabato undici novembre - una lunga e inquieta vigilia - tornammo al campo di nuovo, nel pomeriggio, a osservare se con quella maledetta pioggia che aveva ripreso nel frattempo a scendere, sul campo si formavano le pozzanghere (l’ pantear’): temevamo che l’arbitro avrebbe rinviato la partita… L’ pantear’ non c’erano ancora, ma si stavano formando, al centro del campo e davanti all’area di porta. Se la pioggia fosse continuata, difficilmente avremmo potuto giocare. Tornammo su in silenzio, preoccupati… Avevamo Comunque stabilito un programma per il giorno dopo, la mattina di domenica: tutti a Messa, per strappare una parola di consenso a Don Palmino: magari una benedizione. Ne avevamo bisogno: la prima partita era con la Torinese, retrocessa dalla Seconda categoria per un miserabile punto. Doveva essere fortissima, quindi, questa Torinese, squadra di Torino di Sangro. Il calendario delle partite era arrivato una quindicina di giorni prima, con grande entusiasmo ed emozione da parte di tutti. Appena il foglio era arrivato in comune – era quella la sede amministrativa della Società - Raffaele lo mostrò a tutti i presenti in piazza e al bar, e tutti lo contemplarono, affascinati. C’era scritto ‘S.S. Colledimezzo’ sotto la scritta e il timbro ‘Fgci’ Federazione italiana gioco calcio. Come non provare un brivido di stupore e di orgoglio? E come non sentirsi fieri nel vedere i primi manifesti stampati – erano di un marrone chiaro – con la scritta ‘Incontro di Calcio – Campionato Provinciale Dilettanti di Terza Categoria’ Lo leggemmo daccapo una ventina di volte: in pratica tutte le volte che uscivamo in piazza. Pochi giorni prima dell’arrivo del calendario, la Società sportiva aveva preso il suo primo provvedimento: aveva sistemato una bacheca per le comunicazioni a tutti gli sportivi, che poi era in pratica a tutti i cittadini. Era stata apposta sul muro della casa di Raffaele, punto di passaggio per chi va in piazza. Nei giorni che seguirono la pubblicazione del calendario delle partite, la bacheca era diventata un punto di ritrovo e di discussione. Le squadre con le quali dovevamo giocare erano la già citata Torinese, la Disalcar di Ortona, Rocca.S Giovanni, Vis Lanciano, Perano, Piane D’Archi, Garden Club S. Vito, S. Maria Imbaro, Nuova Lanciano, Taranta Peligna, Altino, Vasto Sud. Con noi si era in tredici, numero dispari, per cui si osservava un turno di riposo: noi avremmo riposato alla seconda giornata…..‘Riposa – Colledimezzo’ era scritto quindi alla seconda giornata. Qualcuno di noi disse che contro questa squadra, Riposa (!) ci aveva già giocato. Risate. E nostalgia, ora che scrivo….Gli spiegammo che” Riposa” era il presente indicativo del verbo “riposare”, e scoppiò anche’egli ridere. “Pensavo fosse la squadra di Ripa (Riposa) Teatina.”, si giustificò. La Messa, si diceva… avevamo deciso di andarci tutta la squadra, se possibile. Da Lassù urgeva un aiutino. E vi era stata l’idea geniale di un’offerta con conseguente accensione delle candele. Un rito propiziatorio, questo, che ci avrebbe accompagnato (e qualche volta dato buca) per quasi tutto il decennio - o poco più - in cui giocammo i vari campionati di Terza, Seconda, e l’unico di Prima categoria. A Messa, quella mattina piovosa del 12 Novembre, eravamo in sei o sette, i più giovani. Assenti giustificati Enrico Del Peschio e Emilio Lemme che in quel momento – erano le undici di mattina - stavano viaggiando da L’Aquila a Colledimezzo per giocare quella mitica partita. Erano militari. Dopo la partita sarebbero ripartiti: una fuga, in pratica, col rischio di una punizione esemplare! Ma Colle era Colle!! E quella era una partita speciale. La prima di campionato della Storia calcistica di Colledimezzo! A Messa erano presenti - dritti e serissimi - chi racconta, Valeriano De Francesco, Giulio Di Nardo, Nicolino D’Amico, Giacinto Carrea, Ermando Di Lello. Quest’ultimo aveva qualche anno più di noi: era stato lui - da buon capitano – che aveva suggerito di andare a Messa la mattina di domenica. Alla nostra proposta di accendere anche le candele aveva esclamato: ‘Bella p’nzat’. Uoj vinciamm’ 2-0!” La pioggia aveva smesso solo in tarda serata. E con l’orecchio teso qualcuno di noi non aveva dormito per ascoltare se riprendeva scendere. Ci eravamo ritrovati la mattina dopo, quella del fatidico 12 novembre, alle dieci e mezzo al bar di Cistone , ma subito eravamo scappati a la luggiaitt’ in via Ponente, per vedere com’era ridotto il campo: miracolo, c’era una sola panteara gross’ davanti all’area di rigore, quella davanti agli spogliatoi. Dunque, si giocava!... Con grande contentezza accendemmo una dozzina di candele, due per ciascuno. E ognuno di noi depositò 500 lire nell’offertorio. Sotto gli sguardi sorpresi della gente che ci diceva “Brav’ a l’ uagliun, uoij vinciajt’” Ma don Palmino per nulla impressionato dalla nostra improvvisa e esagerata devozione, ci esortò a comportarci così tutte le domeniche, in entrambe le Messe, e perfino al Vespro…. Uscimmo dalla Messa soddisfatti e fiduciosi nell’appoggio Celeste. In piazza erano già tutti al corrente della nostra richiesta di protezione all’Altissimo. “Uè… s’ non ci mettait’ l’ coss’ e la forz’…. Altr’ che cann’il!” “Uè…. mò ma r’ccum’… nn’ n’ vabbuttait’ d’ maccariun’!!! “ “Ue…. ca s’ perdai’t, n’ cià r’imin’ait a maund!!’ Mangiammo veramente poco. Chi scrive assaggiò un po’ di carne arrosto tra le proteste materne, gli altri più o meno lo stesso, sempre tra le proteste della mamma che temeva che suo figlio ora che giocava a pallone non avrebbe più mangiato. “Avessa f’ ca mò p’ la pall’ n’ mign’ chiuw!!” Qualcun altro non aveva mangiato a mezzogiorno, in quanto aveva sentito che i giocatori professionisti mangiavano alle dieci di mattina per poter digerire, e si era fatto cucinare dalla mamma la pasta alle dieci! La sera prima eravamo andati a letto dopo Carosello, come si diceva allora, e più di uno non aveva dormito ‘p lu p’nzear’ All’una eravamo già tutti al campo! Trovammo Raffaele e la sua mitica cinquecento parcheggiata. E alcuni dirigenti che srotolavano una corda dagli spogliatoi verso la ferrovia. Camminavano veloci, furtivi. Raffaele era già sotto il passaggio della ferrovia, dietro la tribunetta. Sulla sommità del rialzo, dove passava la ferrovia, vi era un uomo, immobile che aspettava, guardandosi intorno con aria un po’ circospetta. Osservammo in silenzio la scena, Raffaele e gli altri che sbucavano alle spalle dell’uomo, il quale si era appena chinato per prendere il capo del filo. “Ma che stann’ a f’?” chiese uno di noi. Stavano attaccando il filo della corrente degli spogliatoi al casello della sangritana. Al campo non c’era ancora la luce. Avremmo assistito a quella scena per molte domeniche ancora, immediatamente prima della partita giocata sul nostro campo. Fin quando l’Enel attaccò finalmente la luce. Allora non potevamo immaginare che sarebbe trascorso un intero inverno. Così molte volte l’allenamento l’ avremmo fatto correndo per le strade del paese. Salivamo – correndo, per quanto ci concedeva il fiato - le scale del Quarto Abbazia, quelle che portano al Colle, correvamo su per la salita della Croce con le nostre tute giallo canarino. Ci si fermava nelle piazzette per respirare e annusare l’odore della carne arrosto che sprigionava a quell’ora di sera in cui si cena. Al ritorno a casa dopo la doccia avremmo saccheggiato anche noi il frigo di casa, stimolati dalla fatica e da quegli odori invitanti. Entrammo dunque negli spogliatoi. Trovammo le panche della sagrestia, quelle che i bambini occupavano durante il catechismo: un gentile prestito di Don Palmino. Avevamo notato che anche le panchine per le riserve e la dirigenza erano due panche di quelle in cui ci si sedeva per il Catechismo. Sentivamo il cuore che batteva forte ancora prima di cominciare! E che poi ebbe una specie di ulteriore sovra battito quando si vide spuntare da lontano una lunga fila di auto, che con calma parcheggiò e ne uscirono i giocatori, quasi tutti alti e robusti, le borse color granata grandi quasi il doppio delle nostre, con la scritta bianca ‘Ac Torinese’ insieme al nome di un’azienda. Sulle nostre borse c’era invece solo il nome del paese, perché erano state comprate con il contributo di tutta la gente. Due mesi prima, ai primi di settembre, sull’onda dell’emozione suscitata dalla vittoria nel torneo del Sangro a Villa S. Maria, si era costituita la Società Sportiva. Si erano riunite un centinaio di persone, nella stanzetta ove ora c’e’ il baretto della pro Loco: naturalmente quelle che c’entravano. Il resto era rimasto fuori e assisteva alle operazioni, per quanto possibile, attraverso la finestra aperta. C’era tutto il paese, quasi! Un grande applauso sancì la costituzione del Direttivo: Raffaele presidente, Leondino Del Peschio vicepresidente, Antonio Carrea Tesoriere, Renato Di Fiore Segretario, Domenico Vizioli, D’Alessandro Egidio, Carlo Vizioli, Vincenzo Marchionno, Giovanni Pili dirigenti. Un centinaio di soci, che ‘sborsarono’ ventimila lire per ciascuno. Ma molti di loro ne versarono 50 e 100 come alle feste d’Agosto. Ma torniamo al campo, dove stavano sfilando, davanti a noi, i giocatori avversari. “Madonn, chiss’ è tutt’ gruoss!”…” disse uno di noi, che si era affacciato davanti alla porta degli spogliatoi. “Ma che gruoss’ e gruoss! Mò i facemm’ v’dè nieuw coma z’ joc’ a pall’ a chiss!” Era Ermando, che si era affacciato anche lui: iniziando così, da quella prima partita, a incitarci e a spronarci come avrebbe fatto per una dozzina di anni a seguire. Erano intanto arrivati anche Enrico Del Peschio e Emilio Lemme dall’Aquila, con la 126 celeste di Enrico, pallidi e preoccupati, e non solo per la partita: subito dopo la gara dovevano ripartire per L’Aquila! Era arrivato anche l’arbitro. Se ne stava davanti agli spogliatoi in attesa delle liste, guardando il campo fradicio di pioggia ma praticabile. Lo guardammo a lungo, con emozione ma anche con un po’ di diffidenza: però era la prima volta che arrivava un arbitro vero al nostro campo… Indossammo le divise con i numeri. Ancora emozione. Uno alla volta uscimmo dagli spogliatoi e andammo davanti alla porta verso gli spogliatoi. ‘Uè pass’ sà pall!” O, fa nu cross!” “Famm’ fa nu tir a la port!” Era questo il nostro riscaldamento prima della partita. Ci guardavamo l’un l’altro, seri, preoccupati. Intanto sulle tribune c’era già tanta gente, donne e bambini compresi. E tanti che ci incitavano: “Uè, t’ret’ dop’ a la port’ no m’ uw!”, gridò uno dalla gradinata. Di colpo ci fermammo. Ognuno di noi rimase immobile a osservare i giocatori i giocatori della Torinese che in silenzio e in fila per due uscivano dagli spogliatoi. Con la divisa sembravano ancora più grossi, e per di più avevano delle gambe muscolose, da giocatori! Si misero, sempre in fila, a correre piano lungo la fascia del campo sotto le tribune. Su e giu. Poi, sotto gli ordini dell’ allenatore, fecero ginnastica con le gambe e con le braccia. Poi si tirarono il pallone piano tra di loro. Piccoli passaggi veloci mentre correvano a mò di girotondo intorno a uno di loro che distribuiva il pallone. Non avevamo mai visto nulla di simile. Ma fu il solito capitano che ci intimò “Mò i facemm’ vede nù a chiss’ Subito dopo arrivò il fischio dell’arbitro che ci chiamava negli spogliatoi per l’appello, ma prima del fischio era arrivata l’esortazione di Raffaele e insieme di tutta le dirigenza ‘Uagliù, tutt’ davaindtr! Mo vè l’arb’tr’!” L’arbitro si presentò, ci invitò a rispodere ‘nome e numero’, dopo che lui stesso pronunciava il nostro cognome. Ma più di qualcuno invece del nome e del numero rispose ‘Presente’…. Uscimmo di nuovo e trovammo i giocatori della Torinese che ci aspettavano, guardandoci con indifferenza, mentre noi li osservavamo con occhiate basse e timorose... Entrammo in campo. L’applauso della folla sulla tribuna fu lungo e avemmo un brivido, tutti. Monetina. Ermando diede la mano all’altro capitano, saluto al pubblico. Ci disponemmo. Avremmo attaccato verso la porta degli spogliatoi. L’arbitro controllò le reti, vide i picchetti che le fissavano alla terra e quasi gli scappò da ridere. Sicuro che tengono? Chiese a Ermando. ‘ Sicuro, non si preoccupi, arbitro!” rispose il capitano, deciso come sempre. Al centro del campo l’arbitro diede un’ultima occhiata intorno. Dalla tribuna arrivò un grido: ‘ “Uagliù, m’arr’cumann!” Quindi l’arbitro finalmente fischiò il primo fischio. Erano le 14.30 del 12 Novembre 1979…. Di come fini la partita e quale fu la formazione potete leggerlo sulla pagina del diario di scuola, scritto quella sera stessa da chi racconta. Basta andare su Photo. Di come segnammo il primo gol della storia e di come conquistammo il primo punto. E poi come arrivò la prima vittoria (e le altre peripezie di quell’anno) lo saprete nelle prossime puntate di ‘Trent’anni e li dimostra’

 
Camillo Carrea.